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Periodico dell'Associazione

 

Sezione Culturale - Le conferenze

2015 PIPPO BONO un fiorentino Apostolo e Compatrono di Roma

“S.E. Mons. Edoardo Aldo Cerrato, C.O., Vescovo di Ivrea, inaugura il nuovo anno sociale tenendo, dopo la celebrazione della Santa Messa in Cappella, una conferenza sulla “romanitas” di San Filippo Neri”

La scorsa domenica 11 ottobre, giorno in cui si ricorda l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (avvenuta nell’anno 1962) e la memoria liturgica di San Giovanni XXIII, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno sociale e nella compagine delle celebrazioni per il V centenario della nascita di San Filippo Neri (1515 – 21 Luglio – 2015), l’Associazione ha invitato a presiedere la Santa Messa in Cappella S.E. Mons. Edoardo Aldo Cerrato, C.O., Vescovo di Ivrea, già Procuratore Generale (per quasi vent’anni) della Confederazione dell’Oratorio fondata da San Filippo Neri. Con il Vescovo, hanno concelebrato l’Assistente Spirituale Mons. Joseph Murphy, il Vice-Assistente Spirituale Mons. Roberto Lucchini e il segretario particolare dello stesso Vescovo Don Giuseppe Sciavilla. Alla celebrazione, animata dal coro dell’Associazione e curata nel servizio liturgico dai giovani del Gruppo Allievi, hanno partecipato numerosi Soci, Aspiranti e Allievi.
Nell’omelia, proprio nella ricorrenza del primo anniversario della dedicazione della rinnovata Cappella associativa, il presule, ringraziando per l’invito a celebrare nel Palazzo Apostolico, proprio ai limiti della tomba dell’Apostolo Pietro, si è voluto ispirare all’inno “Si vis Patronum”, responsorio in onore del Principe degli Apostoli (incise a grossi caratteri dorati nella fascia che abbraccia in alto tutta la Cappella), ricordando che Pietro è ancora oggi vivo e presente, come roccia su cui la Chiesa ha la certezza dell’incontro con Cristo.
Traendo poi spunto dall’Orazione Colletta, sintesi splendida dell’insegnamento della Parola di Dio della Liturgia del giorno, il celebrante ha posto l’accento su come la grazia di Dio sia essenziale affinché la vita cristiana possa essere vissuta nella fede, nella speranza e nella carità, virtù fondamentali per il cristiano. Virtù che, in quanto teologali, sono necessarie affinché – pur nella fragilità umana – il fine ultimo di ogni individuo sia quello di operare il bene. Quello cioè di realizzare instancabilmente il progetto di Dio per l’esistenza umana, non solo attraverso le opere, ma, tramite il suo amore e la sua grazia, accogliendo così quell’aiuto che trasforma e rende uomini nuovi. Uomini che il Creatore lascia però liberi di rispondere al suo amore; “senza di me non potete far nulla”, dice il Vangelo; la sua grazia dunque è essenziale per la santificazione degli uomini. Dio presuppone cioè che noi mettiamo a disposizione del suo amore tutto quello che siamo, ovvero la nostra natura così com’è. Si tratta di impegnare tutto ciò che abbiamo, per un fine alto e più prezioso delle cose stesse che si impegnano, perché il cristianesimo è sempre un guadagno.
Con Cristo si guadagna sempre e non si perde mai. Come il mercante che vende tutto per la perla più preziosa, così anche noi nella sequela Christi. La vita eterna che non finisce, non è solo in Paradiso ma comincia quaggiù attraverso la nostra risposta a Dio. Questa vita in Cristo, ha proseguito il Vescovo, ci trasforma e ci spinge a condividere questo Amore con gli altri. Nella logica che tutto ciò che abbiamo è dono suo e non possesso. L’esempio fulgido sia sempre il “sì” pieno di Maria, il suo “fiat”, pronunciato nell’“ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum”.
Sicuri che Cristo ci darà in cambio cento volte tanto! Come aveva capito certamente San Filippo Neri che, soleva ripetere durante la sua esistenza: “chi vuol altro che non sia Cristo, non sa quello che cerca”! E la conclusione dell’omelia, con il richiamo all’espressione di San Filippo Neri, ci introduce e ci proietta verso la seconda parte della giornata, la conferenza sulla figura di Santo.
Prendendo spunto, come già ricordato, della ricorrenza del V Centenario della nascita di San Filippo Neri, l’oratore ha iniziato a parlare di questa immensa figura della Storia della Chiesa, mettendo subito l’accento sulla particolare “romanitas” di padre Filippo che, pur essendo nato a Firenze il 21 luglio 1515, spese la sua vita completamente a Roma – per oltre sessant’anni ininterrottamente, senza mai allontanarsene – tanto da meritare tra i romani l’appellativo dialettale ed affettuoso di “Pippo Bono” e da essere poi salutato dai Sommi Pontefici come l’Apostolo di Roma, unico dopo gli Apostoli Pietro e Paolo, e, quindi, divenuto a buon titolo Compatrono della città eterna.
Nel ricordare i tanti brevi dei Pontefici che hanno celebrato San Filippo Neri come Apostolo dell’Urbe, il pensiero del conferenziere è andato a Papa Pio XII, profondamente legato alla Chiesa Nuova e alla spiritualità filippina, essendo nato a palazzo Pediconi, esattamente alle spalle del complesso vallicelliano. Il giovane Eugenio Pacelli, che fu chierichetto della Chiesa Nuova, trascorse molte ore del suo giovane sacerdozio in uno dei confessionali della chiesa fondata da San Filippo e dove il Santo è sepolto. Singolare, inoltre, il fatto che proprio alla comunità dei padri oratoriani, Pio XII concesse a Castel Gandolfo l’ultima udienza, appena cinque giorni prima della sua morte.
Filippo Neri, battezzato nel Battistero di Firenze, proveniva da una famiglia della piccola nobiltà fiorentina, legata alla spiritualità domenicana e seguace del movimento riformatore del Savonarola. Il Santo resterà sempre molto legato alla sua identità fiorentina, nonostante divenne presto romano e si spese totalmente a Roma e per Roma, tanto da ripetere continuamente: “chi fa bene a Roma, fa bene al mondo intero”. E, a riguardo della fierezza delle sue radici, una testimonianza di Giovan Battista Strozzi così recita: “Filippo soleva dire che si come egli era fiorentino, aveva caro che gli altri sapessero ch’ei fusse”. Il Santo fu fieramente fiorentino e anche “oltrarnino”, che è un po’ come dire trasteverino ad un romano; le sue radici fiorentine figurano anche nell’intestazione della bolla del 1575 con la quale Papa Gregorio XIII istituì la Congregazione dell’Oratorio e concesse alla medesima Congregazione la Chiesa della Vallicella, che recita: Dominus Philippus Nerius florentinus.
“Un amore immoderato per Cristo, scrive il Papini, uno dei biografi di San Filippo Neri, lo ha innalzato fino ai vertici della santità, facendolo però al tempo stesso restare fanciullo, faceto, oltrarnino”. Questo è il Filippo che arriva a Roma e che diventa poi così profondamente romano. All’età di circa quindici anni, il padre lo indusse a lasciare Firenze. Erano nel frattempo tornati in città i Medici e, conseguentemente, la famiglia dei notai Neri, espostasi ai tempi della predicazione del Savonarola, non era certo tra quelle in grazia ai nuovi signori. Ser Francesco, padre di Filippo, già notaio bene avviato, cadde in disgrazia e preferì inviare il figlio a San Germano (l’odierna Cassino), presso un parente, Romolo Neri, ricco ed agiato mercante di stoffe pregiate, provenienti dall’oriente. Romolo Neri, senza eredi, accolse volentieri Filippo come erede designato.
Non sappiamo però quanto restò con lo zio; forse alcuni mesi, o forse qualche anno. Sappiamo, invece, che a vent’anni era già stabilmente a Roma. Perché era a Roma? Cos’era avvenuto? Che progetti aveva? Certamente non venne nell’Urbe per fare carriera o per fare soldi. Ripeterà spesso ai suoi figli spirituali che se avesse voluto roba, a San Germano ne avrebbe avuta quanta voleva. Nemmeno la scelta vocazionale sembra essere la spiegazione più plausibile di questa sua avventura romana; diventerà prete all’età di trentasei anni, ben sedici anni dopo. Molto probabilmente questo suo trasferimento nell’Urbe è da ricercare nel fascino che ebbe su di lui la città eterna, la sua storia millenaria, l’essere il centro della cristianità, con i sui santi, con i suoi martiri e le sue catacombe. Filippo, fu rapito da questi aspetti e a Roma cercò di viverli e di conoscerli a fondo. Senza però combinare nulla…
Si iscrisse anche alla Sapienza per alcuni corsi di filosofia e frequentò lo studio teologico degli Agostiniani a Campo Marzio; fu anche membro di diverse Confraternite, le associazioni di volontariato cattolico del tempo. Assisteva i malati, aiutava i poveri. Era uso dire ai giovani suoi coetanei che incontrava per le strade di Roma: “aho, fratelli, quand’è che cominciamo a fare il bene?”. durante questo periodo, si guadagnava da vivere facendo da precettore ai figli del Capo delle Dogane dello Stato Pontificio.
In una Roma appena distrutta dal sacco dei Lanzichenecchi, avvenuto appena sette anni prima, l’autorità ecclesiastica, in quegli anni, stava iniziando a pensare a quella che verrà poi definita “la Riforma Cattolica”, in risposta alla riforma protestante di Martin Lutero. Sono gli anni preparatori del grande Concilio di Trento.
Nel 1544, in prossimità della solennità della Pentecoste, Filippo – ventinovenne ed ancora lontano dall’idea di farsi sacerdote, perché si riteneva indegno – mentre pregava nelle catacombe di San Sebastiano, chiedendo al Signore di ricevere il dono dello Spirito Santo, ebbe un’esperienza mistica che lo segnò per sempre nel corpo e lo cambiò definitivamente nell’anima. Un’esperienza della quale Filippo non fece mai cenno a nessuno e che serbò gelosamente per se per tutta la sua vita. Quanto sappiamo, lo dobbiamo alle poche confidenze frammentarie che sul letto di morte fece al Cardinale Federico Borromeo che gli portava il Viatico.
Il tumor, il gonfiore del petto che tutti vedevano durante la sua vita, era provocato da un ingrossamento del cuore, talmente eccezionale da essere – così confermò l’Archiatra pontificio che ebbe incarico dal Papa di eseguire l’autopsia sul corpo del Santo – ben due volte e mezzo la dimensione di un cuore normale. Questo era avvenuto in quel giorno del 1544 nelle catacombe di San Sebastiano: Pippo bono aveva talmente chiesto al Signore il dono dello Spirito Santo, da riceverne una così grande quantità da dilatarne a tal punto il suo cuore! Così San Filippo Neri raccontò questa sua esperienza mistica al Cardinale Federico Borromeo sul letto di morte: “pregavo di avere Spirito e una fiamma di fuoco penetrò in me attraverso la bocca e mi entrò nel cuore e mi buttò a terra, ed io rimasi a terra e dicevo al Signore, basta Signore, non ne posso più, basta …”.
Questa fu la Pentecoste di San Filippo Neri, che Pio XII ebbe a definire “singolare prodigio di carità dell’Apostolo di Roma, da Dio prescelto con la visibile dilatazione del cuore”. Un cuore talmente deformato, perché conformato nella comunione a Cristo, che tra-sformò la vita del giovane laico Filippo Neri per sempre.
Quest’effusione straordinaria dello Spirito Santo, che ne fece un Apostolo singolarissimo del suo tempo, talmente in afflato al Signore da doversi continuamente distrarre per non andare in estasi. Peraltro, va ricordato che la quasi totalità delle sue proverbiali burle avevano lo scopo di evitare che andasse in estasi e di distrarlo affinché non desse spettacolo di se sollevandosi da terra, cosa che rifuggì sempre per la sua grandissima umiltà. Questo era l’unico modo per contenere l’ardore dello Spirito Santo che aveva dentro di se.
Visse fino all’età di ottanta anni, nella totale donazione di se al Signore e al popolo romano. La fondazione della Congregazione dell’Oratorio, della Chiesa Nuova e di tutte le altre sue opere e iniziative caritatevoli altro non sono che l’effetto del suo immoderato amore per Cristo e per la città di Roma. A Roma visse per sua scelta e perché fu scelto da Cristo per Roma. Nell’Urbe, nel 1551, divenne sacerdote e svolse un enorme lavoro – diremmo oggi – di apostolato laicale. L’Oratorio nacque proprio da questa sua attività con e per i giovani romani. Partendo però sempre dalla carità. Bisogna infatti ricordare che Filippo Neri fu cofondatore della Confraternita della Carità per i pellegrini poveri che arrivavano a Roma. Ed ogni sua opera fu sempre intrisa di orazione ed adorazione fervente alla Santissima Eucaristia.
L’oratore ha concluso la sua conferenza ricordando un particolare impegno che caratterizzò il sacerdozio di San Filippo Neri, il tempo da lui dedicato al Sacramento della Confessione. Passò una vita in confessionale e cambiò il volto dell’Urbe attraverso il Sacramento della Penitenza. Tra i suoi penitenti c’erano non solo uomini e donne del popolo, ma anche dignitari della Corte Pontificia, principi, prelati della Curia Romana e Cardinali. Operò così, attraverso le direzioni spirituali, una vera e propria nuova evangelizzazione della città.
Diversi minuti di applausi – segno del gradimento di tutti i presenti – hanno concluso questa interessantissima e seguitissima conferenza. Il Presidente Calvino Gasparini, dopo aver ringraziato l’oratore, ha voluto fargli dono dell’ultimo libro di Antonio Martini sulla Guardia Palatina d’Onore e della medaglia ricordo del quarantennale dell’Associazione, mentre l’Assistente Spirituale ha regalato al presule una copia del suo libro “Christ Our Joy”, sulla visione teologica di Papa Benedetto XVI. Prima di lasciare l’Associazione, Mons. Edoardo Aldo Cerrato ha posato per una foto ricordo con i ragazzi del Gruppo Allievi, anticipando che offrirà loro ospitalità nella sua Diocesi la prossima Quaresima, in occasione del pellegrinaggio che questi giovani faranno a Torino, alla tomba del Beato Pier Giorgio Frassati.
Eugenio Cecchini

 

2014 Conferenza "Non temo alcun male, perchè tu sei con me"

La scorsa domenica 5 ottobre, inizio del nuovo anno sociale, la Prof.ssa Bruna Costacurta, Professore Ordinario di Sacra Scrittura e Direttore del Dipartimento di Teologia Biblica presso la Pontificia Università Gregoriana, ha tenuto una conferenza nella sede sociale, molto apprezzata dai numerosi Soci, Aspiranti e Allievi che hanno affollato il Salone dei Papi.

La settimana successiva, la Prof.ssa Bruna Costacurta è stata nominata Membro della Pontificia Commissione Biblica. A lei vanno le nostre più vive congratulazioni, unitamente all’auspicio di un proficuo lavoro al servizio del Santo Padre.

Pur conservando sostanzialmente lo stile orale, si ripropone il testo della conferenza, trascritto dalla registrazione e non rivisto dall’autrice.

Sono molto contenta di essere qui, di conoscervi e di iniziare con voi il nuovo anno sociale del vostro Sodalizio. Con Mons. Joseph Murphy, ho pensato di leggere e riflettere sul salmo 23, in quanto è un salmo che consente di fare un’esperienza di abbandono e di fiducia nel Signore e che è tutto imperniato su immagini che evocano il cammino: il cammino nel deserto, il cammino verso la parola di Dio. Dunque, per iniziare bene il nuovo anno sociale, mi auguro che questo salmo possa farvi compagnia durante tutto questo periodo di servizio alla Chiesa. Leggiamolo insieme:

“Il Signore è il mio pastore:

non manco di nulla.

Su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,

mi guida per il giusto cammino, a motivo del suo nome.

Anche se vado su valle oscura,

non temo alcun male, perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo;

il mio calice trabocca.

Si, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,

abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni”.

Un salmo molto amato e conosciuto che inizia con l’immagine di Dio come pastore, dove tutti noi siamo il suo gregge. L’immagine della Chiesa, quindi del popolo di Dio, come gregge del Signore è una immagine tradizionale della Scrittura e dei documenti pontifici. Ci è quindi familiare l’idea di essere gregge guidato dal Signore. Il salmista ci invita ad assumere questo atteggiamento: noi siamo le pecore del Signore e, dunque, possiamo dire: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Abbandono radicale, quindi, a Dio che si prende cura di noi, proprio come fa un pastore con le sue pecore.

Sono molti i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento che parlano di Dio come il pastore che guida i fedeli e il suo popolo come gregge. Quando il salmista dice: “Il Signore è il mio pastore”, fa emergere nel credente testi familiari, testi che parlano di Dio come un pastore buono, che si prende cura delle sue pecore, che conf1fascia la pecora ferita, che dà vigore a quella indebolita dal cammino, che va in cerca della pecora smarrita e che poi fa festa quando finalmente la ritrova, con quella gratuità assolutamente tipica di Dio. Che fa fare al pastore della parabola un gesto apparentemente insensato, folle, che è la “follia” dell’amore, la “follia” della generosità di Dio: un pastore che ha cento pecore e si accorge che ne ha perso una e allora va in cerca della pecora smarrita, ma per andare in cerca della pecora smarrita lascia le altre novantanove. Verrebbe da dire: ma questo non è ragionevole, perché, mentre va in cerca di quella smarrita, corre il rischio che si perdano le altre novantanove? Questo non è ragionevole; ma l’amore di Dio non è mai ragionevole secondo la ragionevolezza umana; l’amore di Dio è straripante, l’amore di Dio è totalmente gratuito; quella pecora, in quel momento, è tutto e quindi Egli lascia quello che ha per andare a cercarla.

E quando il salmista ci mette sulle labbra le parole: “Il Signore è il mio pastore”, ci sta invitando ad assumere l’atteggiamento di fiducia e di gioia di chi dice e sa: io sono tutto per Dio. Non solo Dio è tutto nella mia vita, ma io sono tutto per Dio, io sono l’unico, io sono la pecora che Egli va a cercare, vuole me, ama me, con un amore che è solo per me. È questo che il salmista vuole esprimere; che il salmo diventi il nostro modo di sen- tire; i salmi sono dei testi che Israele prima e la Chiesa poi ci donano affinchè diventino la nostra preghiera e, in qualche modo, anche la nostra scuola di preghiera: preghiamo i salmi ed impariamo a pregare. Ma impa- riamo anche a sentire e ad avere quei pensieri e quei sentimenti che sono i pensieri ed i sentimenti di Dio; i salmi ci insegnano a parlare a Dio ed a pregare con le stesse parole di Dio, perché, attraverso la parola del sal- mista, sono ispirati da Dio. Ed allora, “Il Signore è il mio pastore” vuol anche dire: ecco, io sono la pecora smarrita di cui Dio è alla ricerca, sono la pecora ferita che Dio fascia, sono la pecora che riconosce la voce del pastore e che questi chiama per nome.

È bella l’immagine che Gesù utilizza quando parla di se stesso come il Buon Pastore; il pastore che riconosce tutte le pecore, chiamandole per nome. C’è un tale rapporto di intimità e di familiarità tra noi e Dio che non solo sentiamo la sua voce e lo riconosciamo subito, ma che per Dio non siamo mai uno dei tanti. Egli ci chiama per nome. Immaginiamo quello che è il rapporto di un pastore con le sue pecore; non pensiamo ai grandi al- levamenti sparsi sulle colline della Svizzera; qui, l’immagine del pastore è quella di cui parla la Bibbia, di un pastore con un piccolo gregge che è tutto il suo tesoro; è del frutto di questo piccolo gregge che egli vive; queste pecore sono il suo tesoro prezioso e per il pastore non sono tutte uguali: “…no, quella è la Bianchina, quell’altra ha sempre il vizio di andare per conto suo e si perde, quindi la debbo tenere d’occhio, quest’altra si chiama Rosetta, questa invece è prepotente e non consente mai alle altre di man- giare ed allora la debbo tenere a bada…”. Il pastore le conosce, una ad una, conosce il loro nome, il loro carattere, sa quando deve essere più te- nero o più severo. Ed ognuna è il suo tesoro prezioso.

Rammentiamo un attimo il racconto del peccato di David con Betsabea: David, pur essendo re, pur avendo donne a profusione, decide di prendere Betsabea che era la donna di un suo soldato, anzi di un suo ufficiale, che stava combattendo per lui. Prende, quindi, la donna di un altro e, dopo varie vicende, ne uccide il marito e la sposa. Un evento turpe nella storia di David. Dio che ne ha pietà, manda da David il profeta Natan per aiutarlo a comprendere il suo peccato; il profeta narra la famosa parabola del- l’uomo ricco che aveva tante pecore e di quello povero che ne aveva solo una. L’uomo ricco ne aveva tante e chissà come le aveva avute, il povero invece, per poterne comperare una, aveva messo da parte i soldi, giorno dopo giorno; la trattava come se fosse una figlia, era entrata a far parte della famiglia, mangiava e dormiva con loro, era il suo tesoro prezioso. L’uomo ricco, presso il quale un giorno arrivò un ospite inaspettato, per non fare la fatica di andare a prendere una delle sue molte pecore, preferì prendere la pecora del povero. Chiaramente David disse subito che quel- l’uomo sarebbe dovuto morire. Il profeta Natan gli replicò che quell’uomo era lui che aveva preso la pecora di un altro, lui che di pecore ne aveva tante. Questo per riflettere che il pastore povero possiede una, due, tre pecore che rappresentano tutto quello che ha; sa, quindi, con quanta cura e con quanto affetto le deve custodire e farle vivere.

Quando diciamo: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”, stiamo affermando che Dio si prende cura di noi, che siamo come le pe- corelle ferite, che siamo preziosi ai suoi occhi, che esistiamo solo noi, per- ché il suo cuore è sufficientemente grande perché il mondo intero sia fatto di uomini unici, tutti unici per Dio; possiamo tranquillamente dire che noi non manchiamo di nulla.

Non dimentichiamo che il pastore in Israele pascolava nel deserto: David pascolava le pecore del padre nel deserto intorno a Betlemme, Mosè pascolava le pecore del suocero nel deserto di Madian. Anche oggi, l’ambiente del pastore di quei luoghi è il deserto. Quindi, quando diciamo: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”, lo stiamo dicendo come se fossimo nel deserto. Stiamo cioè idealmente in quel luogo dove, per definizione, non c’è nulla, dove non c’è possibilità di coltivare i campi, come non c’è possibilità di scavare miniere per costruire utensili di lavoro; nel deserto non c’è nulla, solo pietre e polvere; il deserto di Israele non è di sabbia, ma di pietre e polvere. Ebbene, anche in mezzo a quelle pietre e a quella polvere, noi possiamo dire: “non manco di nulla”, c’è Dio che mi fa da pastore, “non manco di nulla”. Avete davanti a voi un intero anno sociale. Non può escludersi che durante questo anno possiate trovarvi anche in zone desertiche. In tali circostanze è sufficiente ricordarsi del Salmo 23: “non manco di nulla”.

Nel testo originale ebraico, il verbo “riposare” dell’espressione molto bella “Su pascoli erbosi mi fa riposare”, è “accucciare”: “accucciare su pascoli erbosi”, “mi fa accucciare”, dove l’immagine è quella della pecora che piega le zampe e si accuccia. Questo atteggiamento vuol dire che la pe- cora si sente sicura, che non ha paura. Infatti, quando gli animali avvertono il pericolo, si irrigidiscono sulle zampe, perché così, se necessario, possono immediatamente fuggire o attaccare. Quando, invece, piegano le zampe e si accucciano vuol dire che non avvertono pericoli e possono stare tranquille, perché “tu sei il mio pastore”. E queste pecore che si accucciano sui pascoli erbosi, quando poi è il momento di camminare, dice il salmo, possono camminare tranquille. Innanzitutto perché hanno la certezza che il cammino è quello giusto: “Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino”. Il giusto cammino è quello più adatto per le pecore, perché il pastore, non sceglie i cammini più giusti per lui, ma quelli più ido- nei per le sue pecore. Il suo interesse è per le pecore, non per se stesso.

È un salmo scritto da un salmista che fa parte del popolo di Israele ed il popolo di Israele, nella sua storia, di cammino ne ha fatto tanto. Anzi, Israele nasce camminando, nasce nel momento dell’Esodo, attraverso il cammino dell’Esodo. Quarant’anni di cammino, per percorrere un tratto di strada che probabilmente si sarebbe potuta fare in pochi giorni. Quarant’anni, perché Dio lo ha condotto per cammini giusti, quelli più adatti per questo popolo, perché Israele doveva imparare a vivere nella fede, imparare ad obbedire, imparare a fidarsi ed a abbandonarsi in Dio, imparare che era Dio che si prendeva cura di esso. E, quando non c’era da man- giare, Dio manda la manna. La manna è sempre la stessa, Dio manda la carne: gli uccelli dal cielo. Non c’è acqua, Dio fa scaturire l’acqua dalla roccia. “E non si è gonfiato il vostro piede”, dirà Mose, “e il vestito non vi si è logorato addosso”. Dio si è preso cura di voi per quarant’anni. Quarant’anni, che poi è un numero simbolico che vuol dire una vita intera, il tempo di una generazione intera.

Israele ha fatto questa esperienza, nasce da questa esperienza, ha tanto camminato ed ha tanto imparato da questo cammino; ha imparato che con Dio si cammina sicuri, che con Dio non manca nulla, che Dio è sempre pronto a venire in aiuto, che è sempre pronto a perdonare. Israele durante quarant’anni di cammino ha protestato, si è arrabbiato, ha accusato Dio di essere cattivo, voleva ritornare indietro, voleva tornare in Egitto e Dio era sempre pronto a prendersi cura di esso e a perdonarlo con il suo amore fedele.

Voi con la fedeltà che vi contraddistingue, con il vostro servizio, siete al servizio della Chiesa con una fedeltà particolare. Una fedeltà che viene da Dio. È Dio che è davvero fedele, anzi è fedelissimo.

Dio ha guidato il suo popolo per quarant’anni e quello è stato il cammino giusto per Israele. Sì, ha fatto la strada più lunga, sembrava che girasse a vuoto, ma quello era il cammino più giusto. E questo significa che, quando diciamo che il Signore è il nostro pastore, possiamo stare tranquilli che, per quanto strani possano sembrare i cammini della nostra vita, che quello è il cammino giusto per noi e camminare con totale fiducia, anche se trattasi di una valle oscura. Dobbiamo lasciarci sempre condurre da Dio perché “Anche se vado su valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”.

La valle oscura, se vogliamo riferirci alla scena del pastore con il gregge, possiamo immaginarla la sera, quando cala il buio. Un momento buono per mettersi in cammino – nei deserti, infatti, il giorno è troppo caldo per camminare – anche se le pecore sono innervosite dal buio, possono inciampare e sono più facilmente soggette alle aggressioni. Non è così, le pecore non temono alcun male “perché tu sei con me”; le pecore sanno bene che c’è il pastore che, con il bastone e il vincastro, dà loro sicurezza; il bastone e il vincastro sono due strumenti tipici del pastore: uno per di- fendersi dagli attacchi delle belve feroci e per toccare leggermente il fianco delle pecore quando vanno per strade sbagliate, l’altro per appoggiarsi durante il cammino.

Soffermiamoci sul passo: ”Anche se vado su valle oscura“; il testo ebraico per dire “tenebre” (“valle oscura”) utilizza una parola che ha il suono della morte. In ebraico “morte” si dice “mawet”. “Tenebra”, in ebraico, si dice in tanti modi, ma il salmista utilizza un termine, peraltro molto ricercato, che è “salmawet”. Notare: mawet – morte, salmawet – oscurità. Quando diciamo salmawet, per dire “oscurità”, in quella parola c’è la morte. Il buio è la morte: quando pensiamo alla morte, pensiamo al buio. Il salmo dice che se dobbiamo camminare nel buio – e questo può voler dire senza vedere, inquieti, impauriti – possiamo camminare tranquilli “perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Non dobbiamo avere paura, perché, come le pecore, sentiamo il rumore del bastone del pastore che cammina con noi. Sentiamo il bastone che si poggia sulle pietre del deserto e, se ci capita di sbandare, c’è anche il tocco leggero del vincastro che ci fa andare nella direzione giusta. Dopo averci portato a questa esperienza di abbandono – “tu sei con me” – il salmo ora cambia scena. Restiamo sempre nel deserto, rimaniamo sempre con il pastore, non più come pecore, ma come ospiti che il pastore riceve nella sua tenda: “Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca”. Ora la scena è quella della tenda del beduino nel deserto. Il beduino è il pastore. Il salmista ci fa vedere la sua tenda, mentre noi siamo diventati dei fuggiaschi che scappiamo impauriti davanti ai nemici. Vedendo la tenda del pastore, comprendiamo di essere salvi, perché il pastore apre la tenda, ci fa entrare, stende, prepara la mensa; letteralmente sarebbe: “stende la pelle di capra”; il beduino, infatti, stende per terra questa pelle, che può essere di capra o di cammello, e sopra pone le vivande; questa è la sua mensa e per terra si mangia.

Ora Dio è il pastore che ci offre il cibo e ci mette al sicuro dal nemico, perché aver mangiato con lui significa anche essere diventati suoi ospiti e nessuno ci può più toccare. Così, anche se inseguiti da tutti i nemici, dalla malattia, dalla morte, dal male, non corriamo più alcun pericolo, siamo entrati nella tenda del pastore e lì nessuno ci potrà più toccare. È Dio che ci accoglie con tutta la sua generosità, che unge di olio il nostro capo. L’unzione con l’olio è un’usanza tipica del deserto; l’olio, profumato con erbe, serviva a lenire la pelle disseccata e a rinfrescarla dal caldo e dal sole. Dopo l’unzione con l’olio, ci dà un calice abbondante di vino, perché Dio è sempre molto generoso e la sua generosità non conosce limiti.

Quando poi è il momento di riprendere il cammino, dopo esserci riposati ed essere stati messi al sicuro, “bontà e fedeltà mi saranno compagne”. Nell’immagine delle pecore c’era il suono del pastore, qui, invece, ci sono queste due “guardie”: bontà e fedeltà. Sono le “Guardie Palatine” che ci accompagneranno nel nostro cammino: bontà e fedeltà. Mi accompagneranno, mi verranno dietro per proteggermi, per aiutarmi. È Dio che mi ama, che mi accoglie come il beduino, come il capo tribù, come il pastore nella sua tenda, che mi mette al sicuro dai nemici e poi, quando riprendo il cammino, non mi lascia andare da solo. Mi dà le sue “guardie” che mi accompagneranno: bontà e fedeltà. Torna la parola “fedeltà”, tornano immagini che vi sono care. E il salmista continua che così potrò tornare “nella casa del Signore” e lì abitare “per lunghi giorni”.

Qui il salmo gioca un po’ sulle parole; di solito viene tradotto: “abiterò ancora nella casa del Signore”, che può essere letto sia come: “Abiterò ancora nella casa del Signore”, che come: “Ritornerò ancora nella casa del Signore”. Sono entrambi espressioni importanti: si ritorna alla casa del Signore perché siamo continuamente in cammino e il desiderio è quello di poter poi abitare per sempre con Lui.

Ora proviamo a ripensare questo salmo con riferimento al Signore Gesù. Il salmo ci parla di Dio come pastore, ma è il Signore Gesù che dice: “Io sono il Buon Pastore”, quello che dà la vita per le pecore. Il salmo ci parla della casa del Signore in cui abitare, ma è Gesù che ha detto: “Vedete quello? Ecco, lo stanno ricostruendo, ma c’è un altro tempio che in tre giorni sarà ricostruito”; parlava di sé stesso, del suo corpo. Il salmo ci parla di un cammino, è un salmo tipico di cammino, ma è Gesù che un giorno, durante la festa dei tabernacoli, si è alzato in piedi ed ha detto: “Io sono la via”, la strada giusta, quella su cui camminare; si cammina nel de- serto dove si è fatta l’esperienza della manna e dell’acqua che scaturiva dalla roccia, ma quale è la vera manna che scende dal cielo, se non quella che il Signore Gesù ci dona, dicendo: “Io sono la vera manna”; ed è Lui quella roccia che, battuta non dal bastone di Mosè, ma dalla lancia del centurione, si apre per lasciare uscire sangue ed acqua, che fa vivere in eterno perché è il dono dello Spirito. Camminiamo in una valle di tenebra, ma Lui ha detto: “Io sono la luce”; è Lui che ci mette in salvo da tutti i nemici, preparandoci quella mensa che è il banchetto eucaristico e, poi, è quello escatologico che ci rende intoccabili, perché tutti i nemici sono vinti; tutti, fino all’ultimo terribile nemico che è la morte. E, a Pasqua, dalla morte nasce la vita che ci consente di “abitare” per sempre nella casa del Signore, dove nulla ci manca, perché Dio è con noi. È il definitivo Dio con noi, è proprio quel Immanuel, quell’Emmanuele, quel Signore Gesù definitivo pastore e definitivo Re sulla Croce che ha dato la vita per noi.

Ecco, io vi auguro di passare un anno camminando dunque in fedeltà e grazia insieme a questo Pastore e con questi sentimenti. Buon anno sociale!

 

2011 Conferenza 40° dell'Associazione

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2009 Conferenza su San Paolo

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2004 Senatore Giulio Andreotti

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